Le restrizioni della libertà devono essere previste dalla legge, il Dpcm
non è lo strumento costituzionalmente previsto: arriva la prima sentenza
L’intensificarsi della situazione emergenziale che vive il nostro paese ha
posto e pone tutt’ora, un’attenta analisi giuridica alla decretazione di
urgenza che il Governo italiano sta attuando in questi giorni di criticità.
Decretazione di
urgenza che incide su diritti fondamentali della Costituzione che, per
l’ennesima volta, viene stravolta nei suoi principi fondamentali con sommo
rammarico degli illustri padri costituenti.
Ma andiamo con ordine e ricostruiamo la situazione.
L’epidemia (per non utilizzare il termine usato dall’O.M.S. di Pandemia,
per non spaventare i lettori) di Covid19 nel nostro Paese ha assunto e assume
ogni giorno, delle proporzioni importanti e preoccupanti sotto plurimi profili.
Tra i tanti profili preoccupanti, si vuole sottolineare la vicenda in essere da
un punto di vista giuridico – costituzionale. Si vogliono tralasciare qui le
statistiche e i numeri poiché non è la sede adatta e perché questi sono in
continuo aggiornamento ma è importante, ai fini del presente articolo,
ripercorrere le tappe di detta diffusione.
In attesa dei dati del Meridione a seguito della “grande fuga” è noto che
le regioni più colpite, per ora sono la Lombardia, l’Emilia e il Veneto e sin
da subito è apparso chiaro al Governo che la situazione emergenziale che si
profilava più di un mese fa in quei luoghi, comportava la scelta di utilizzare
una normativa emergenziale d’urgenza, al fine di contenere la diffusione del
virus e contrastare la debacle economica imminente.
Fin dai primi giorni il Ministero della Salute ha cominciato a varare
diversi D.M. fino alla deliberazione del C.d.M. del 31 gennaio u.s. che
dichiarava lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale relativo al
rischio sanitario connesso alle diverse patologie respiratorie gravi causate da
agenti virali altamente trasmissibili che iniziavano ad interessare i vari
nosocomi del nord Italia.
Va ricordato da subito che l’art. 24 del D.lgs. 1/18 sulla Protezione civile
autorizza il Governo generalmente inteso, all’utilizzo di tale strumento in
caso di emergenze nazionali.
Successivamente a tale deliberazione del 31 gennaio venivano emanati il
Decreto Legge n. 6/2020, poi convertito nella Legge 13/20, e diversi altri
D.P.C.M. del 1, 8 10 e 12 marzo u.s., decreti di attuazione della legge 13/20.
Come si nota dal lasso temporale di varo dei suddetti decreti del
Presidente del Consiglio dei Ministri, gli stessi sono stati emanati in gran
numero ed in breve tempo, in conseguenza del progressivo diffondersi del
Covid19 che trasformava in zone “rosse” le regioni del nord nelle diverse
provincie, fino al decreto che dichiarava l’intera nazione “zona protetta”.
Il Decreto del 10 marzo, quindi, estendeva a tutto il territorio nazionale
le limitazioni previste da quello dell’8 marzo 2020.
Come oramai tristemente noto, le limitazioni e le restrizioni previste dai
suddetti decreti incidono su diritti fondamentali costituzionalmente garantiti.
Nello specifico, gli artt. della Costituzione più incisi dai suddetti
provvedimento sono il 16 ed il 17.
L’art. 16 prevede:
“[…] Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte
del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via
generale per motivi di sanità o di sicurezza […]”.
L’art. 17 prevede: “[…] I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e
senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto
preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle
autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di
incolumità pubblica. […]”.
Queste norme vanno lette, a parere di chi scrive, alla luce delle misure
restrittive applicate in merito alla chiusura degli esercizi commerciali e per
la ristorazione oltre alle restrizioni imposte alla libera circolazione delle
persone pena le sanzioni penali e amministrative previste dal decreto.
Quanto all’art. 16, il costituente ha voluto tutelare la libertà di
circolazione quale articolazione della libertà personale prevista dall’art. 13
Cost.
È importante ricordare il testo dell’art. 13 Cost.: “[…] La
libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per
atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla
legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla
legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori,
che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e,
se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono
revocati e restano privi di ogni effetto […]”.
La libertà personale rappresenta il diritto fondamentale più importante, e
consiste essenzialmente nel diritto della persona a non subire coercizioni,
restrizioni fisiche ed arresti. Esso si traduce dunque in primis in una tutela
avverso gli abusi dell'Autorità e, specularmente, costituisce l'indispensabile
condizione per poter godere dell'autonomia ed indipendenza necessarie per
esercitare gli altri diritti fondamentali.
Fatta questa premessa, la ratio legis dell’art. 16 è,
quindi, quella di preservare i singoli dalla possibilità che la libertà di
circolazione sia limitata per motivi politici, ciò sulla scorta di quanto era
accaduto nella vigenza del regime fascista.
L'articolo 16, quindi, afferma la libertà dei cittadini di poter circolare
e soggiornare liberamente nel territorio della Repubblica, salvo le limitazioni
della legge per motivi di sanità e sicurezza. Salvo gli obblighi di legge,
inoltre, ogni cittadino può uscire e rientrare dal territorio della Repubblica.
Circolazione vuole intendersi come la libertà di spostarsi senza limiti,
all’interno dello Stato e tale norma va letta in combinato disposto con l’art.
120 Cost. che impone alle Regioni di non vietare con alcun provvedimento tale
libertà.
Da una attenta lettura si può evincere che quest’ultima discende o si
inserisce nella più ampia tutela sovranazionale prevista dall’ordinamento
comunitario dove viene riconosciuta la libertà di circolazione a tutti i
cittadini dell'Unione (v. art. 21 TFUE; v. art. 45 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea, che lo riconosce anche ai cittadini di paesi
extraeuropei che si trovino legalmente nel territorio comunitario). Le libertà
di circolazione e stabilimento sono, inoltre, rafforzata dall'Accordo di
Schenghen.
Per quanto concerne i cittadini dell'Unione Europea, essi godono anche
della libertà di stabilimento, vale a dire il diritto di svolgere, senza
restrizioni, attività lavorative di qualsiasi tipo.
Solo i dipendenti pubblici subiscono delle restrizioni legate allo status di cittadino ma
solo quando necessario per garantire il buon andamento della PA ai sensi
dell’art. 97 Cost.
Quindi, come per l’inviolabilità della libertà personale di cui all’art.
13, le limitazioni della libertà di circolazione devono seguire l’inderogabile
principio della riserva di legge, ovvero la competenza esclusiva della
legislazione ordinaria a disciplinare le forme di restrizione della libertà di
circolazione.
Altro inderogabile principio è quello della riserva di giurisdizione per
cui solo l'autorità giudiziaria può emanare provvedimenti restrittivi ovviamente
con annesso obbligo di motivazione.
Ai fini del presente articolo occorre specificare che in merito alla
riserva di legge, essa è una riserva relativa per cui le limitazioni alla
circolazione sono certamente possibili per motivi di sanità e di sicurezza,
come nel nostro caso.
In merito all’art. 17, va detto che lo stesso, condivide la medesima ratio legis dell’art. 16 e
deriva, anch’esso, all’art. 13 Cost. in merito alla libertà personale di cui la
libertà di riunione ne rappresenta una manifestazione ad uso collettivo.
Nonostante la formulazione della norma, la libertà viene garantita anche
agli stranieri perché ai sensi dell’art. 2 comma 4 del d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286, anche gli stranieri possono "partecipare alla vita pubblica locale" purchè
soggiornino regolarmente sul territorio nazionale.
Tale libertà, a detta della migliore dottrina costituzionalistica, permette
lo sviluppo sociale della collettività, concetto, quest’ultimo, che
riprenderemo più avanti.
I diritti di riunione e di associazione (di cui all'art. 18 Cost.)
costituiscono le c.d. libertà collettive, che si manifestano con il contributo
di più soggetti. La riunione indica il diritto di associarsi in modo non
stabile ma nemmeno fortuito ed esistono varie tipologie di riunioni.
Quella che, ad oggi, interessa è quella che riguarda gli assembramenti,
ovvero riunioni occasionali determinate da una circostanza improvvisa ed
imprevista.
Quindi, a causa dell’epidemia, sono vietate le riunioni organizzate per
fini politici o sindacali, oltre a quelle religiose e quelle spontanee anche in
casa.
Da quanto emerge da questa breve analisi delle norme in commento, viene
limitata la socialità. La socialità è una prerogativa dell’uomo quale “animale
sociale”, è una prerogativa dello sviluppo intellettivo, è una prerogativa del
mondo giovanile. Anche se la socialità non è espressamente sancita dalla Carta
Costituzionale, essa rappresenta un valore desumibile dalle diverse norme che
la compongono.
Sempre in tema di sviluppo in generale e sviluppo sociale in particolare,
altri valori costituzionali sono stati messi a dura prova a causa della
diffusione dell’epidemia quale, ad esempio, il diritto allo studio presso
scuole ed Università. Certamente viene garantito il servizio on line ma tale
servizio in una società, quale quella italiana, più abituata al “cartaceo” ha
delle ripercussioni di notevole valore considerando i molti disagi che studenti
e professori si trovano a vivere.
Tutte queste restrizioni sono state disposte da un Decreto del Presidente
del Consiglio e non da legge ordinaria.
A questo punto occorre analizzare funditus questo
strumento.
Il Decreto del presidente del consiglio è un atto amministrativo che non ha
forza di legge e che, come i decreti ministeriali, ha il carattere di fonte
normativa secondaria e serve per date attuazione a norme o varare regolamenti.
Quindi, il d.p.c.m. non costituisce una fonte del diritto autonoma, bensì
la veste formale spesso attribuita ad una fonte secondaria, il regolamento
appunto, qualora essa venga emanata da un Ministro nell'ambito della competenza
del suo dicastero o dal Presidente del Consiglio stesso.
Tale potere regolamentare è disciplinato dall'art. 17 della Legge 23 agosto
1988, n. 400. Secondo i principi generali del diritto amministrativo, tale
articolo costituisce la fonte attributiva del potere che, sulla base del
sistema delle fonti disciplinato dalla Costituzione, non può essere esercitato
in difetto di una specifica attribuzione di potere da parte di legge ordinaria.
Quindi, tali decreti non possono derogare, quanto al contenuto, né alla
Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate. Per identico motivo, le
norme regolamentari non possono avere ad oggetto incriminazioni penali, stante
la riserva assoluta di legge che vige in detta materia prevista dall’art. 25
della Costituzione.
Occorre, però, distinguere tra regolamenti governativi in senso stretto e
quelli ministeriali. I primi seguono un procedimento di emanazione cosiddetto
aggravato in quanto essi vengono emanati con Decreto del presidente della
Repubblica (D.P.R.), previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentito
il parere del Consiglio di Stato (obbligatorio ma non vincolante). Essi sono
inoltre sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti e
pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
I decreti ministeriali o i d.p.c.m. subiscono, invece, un procedimento meno
gravoso e molto più semplificato essendo atti amministrativi (per alcuni di
alta amministrazione) e non fonti legislative.
Ora, il nostro ordinamento giuridico prevede delle misure
restrittive della libertà personale per motivi di salute anche gravi, quali
epidemie, che, in un recente passato, hanno impegnato i dirigenti dello Stato
Nazionale.
Si pensi al colera, al
vaiolo o all’AIDS e si pensi al recente dibattito sulle vaccinazioni
obbligatorie. Quindi, tecnicamente, in casi gravi e non soltanto pandemici o
epidemici (si pensi ai TSO), lo Stato può incidere con forza su diritti
costituzionalmente garantiti.
Corre l’obbligo di una
specificazione. Tali restrizioni, anche nel passato, erano attuate solo e
soltanto sui soggetti colpiti da tali malattie e non sulla collettività in
maniera così indiscriminata. La
situazione dell’epidemia da COVID 19 è una situazione che rappresenta un novumsent importante, in cui, anche
dall’utilizzo numeroso del mezzo del d.p.c.m., è emerso che lo Stato Italiano
è, ancora una volta, risultato assolutamente impreparato.
Preoccupa che si è incisa gravemente la libertà delle persone con un atto
amministrativo. Per quanto la ratio dello stesso può
sembrare assolutamente corretta in seno all’esigenza di contenimento della
diffusione del Covid19 per la tutela di tutti, da un punto di vista
strettamente giuridico, questo strumento rappresenta un abuso indiscriminato
contrario allo stato democratico in cui dovremmo vivere.
Abbiamo detto che il d.p.c.m. è un decreto impugnabile dinanzi ai Tribunali
Amministrativi Regionali essendo un atto amministrativo e nemmeno fonte del
diritto.
Quindi, un esercizio commerciale che ha avuto la sospensione della
licenza perché rimasto aperto, ben potrebbe impugnare tale atto amministrativo
dinanzi al TAR sollevando la questione di legittimità costituzionale.
Quindi, un cittadino che si è visto irrogare una sanzione
amministrativa o penale, che preveda anche l’arresto, potrebbe sollevare
questione di legittimità costituzionale su uno strumento che, a parere di chi
scrive, è del tutto costituzionalmente errato.
La dottrina
costituzionalistica ritiene che non sia pensabile che un siffatto strumento,
quale un d.p.c.m., che, lo ripetiamo, non è una legge perché ad essa
gerarchicamente inferiore, e non è, quindi, una fonte normativa, possa
limitare, restringere, annullare (in alcuni casi) diritti costituzionalmente
garantiti quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, quelli di
circolazione e riunione che, tra l’altro, sono estrinsecazione dell’art. 13
quale diritto fondamentale.
La nostra Costituzione che, per quanto vetusta, non è certo poco esaustiva,
prevede, come detto ut supra, limiti all’esercizio di diritti
costituzionalmente garantiti e, in situazioni emergenziali importanti come
quella attuale, sembra anche corretto prevederne per la salvaguardia della
collettività. Ma tali limiti devono essere previsti da legge ordinaria. Oltre
al potere legislativo del Parlamento, esiste lo strumento del Decreto Legge o
del Decreto Legislativo che dovevano essere utilizzati in luogo del d.p.c.m. e
che, tra l’altro, costituiscono fonte normativa. Ovviamente nel rispetto delle
norme costituzionali.
Chi scrive ritiene di sostenere la tesi che in questi giorni è invalsa
nella dottrina costituzionalistica maggioritaria; la tesi per cui sarebbe stata
scelta migliore l’adozione di decreto legge da trasformare in legge ed
utilizzare lo strumento del d.p.c.m. o del d.m. come decretazione atta a
spiegare e ad interpretare le norme contenute nell’emanando D.L., senza
lasciare alla magistratura, come oramai troppo spesso avviene, il compito di
interpretare le leggi stante le carenze del Parlamento.
L’esempio di quanto detto è rinvenibile nell’interpretazione del termine
“passeggiata” che, secondo alcuni magistrati del nord Italia, deve essere
interpretata come passeggiata a poche centinaia di metri da casa. Non sarebbe
dovuto essere il Governo a specificare tale locuzione in luogo della
magistratura?
È difficile essere esaustivi in relazione ad un argomento così vaso ma si
tenterà di fornire al lettore la più ampia panoramica possibile sulla
situazione emergenziale a livello normativo.
Il fondamento per l’esercizio, da parte del Governo, del potere normativo
è, nel decreto legislativo, nella stessa legge di delegazione. Invece, quando
il Governo interviene con Decreto Legge, il fondamento di tale potere normativo
è ravvisato nella situazione di necessità ed urgenza.
È proprio il Governo che deve valutare lo stato di necessità e di urgenza
ed è, quindi, lui che adotta tali decreti “sotto la propria responsabilità”. Come noto, tali
decreto devono essere presentati alle Camere lo stesso giorno per la
conversione in legge, in mancanza della quale, entro 60 giorni dalla
pubblicazione in G.U.R.I., essi perdono efficacia ab initio.
L’apprezzamento circa la straordinarietà, la necessità e l’urgenza del
caso, ha, naturalmente, carattere politico ma è altrettanto chiaro che
l’apprezzamento sulla straordinarietà ed urgenza va riferito alla impossibilità
di legiferare da parte del Parlamento.
L’istituto della conversione entro 60 giorni dalla pubblicazione in
G.U.R.I. è necessaria per ripristinare le rispettive competenze degli organi
costituzionali coinvolti attraverso l’istituto della novazione della fonte
legislativa.
Si riporta l’art. 77 Cost.: “[…] Il Governo non può, senza delegazione delle Camere,
emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta,
sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve
il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se
sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in
legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti
sulla base dei decreti non convertiti […]”.
A riprova di quanto
sin qui esposto va segnalata una delle prime sentenze in seno alla crisi
epidemiologica inerente al Covid19. Il caso del Tar Campania.
Il Giudice
Amministrativo Campano ha annullato un provvedimento amministrativo irrogato
contro in cittadino italiano da parte delle forze dell’ordine.
Il caso, appunto, è
stato quello di un cittadino che aveva deciso, nonostante la quarantena impostagli,
di andare a lavorare e di andare a prendersi le sigarette.
Il Tar Campano gli ha
dato ragione con annullamento del provvedimento amministrativo con cui gli era
stato ordinato di rimanere nella propria abitazione.
Sulla scia dell’analisi fin qui effettuata e sui pericoli in merito
all’adozione del mezzo del d.p.c.m., questa sentenza apre una breccia in un
muro che sembrava destinato a non venire scalfito, quello che doveva mettere le
norme emergenziali al riparo dai cavilli e dai ricorsi. Ma abbiamo detto che
così non è.
L’atto che costringeva tale cittadino viene in sentenza nominato come “atto di diffida e
quarantena” che proibisce di uscire di casa per quattordici giorni. Il giorno dopo
avere ricevuto la diffida, il soggetto coinvolto ha invece presentato ricorso
al Tar Campania.
Il Tar della Campania, che come tutti i tribunali d’Italia, dovrebbe essere
praticamente fermo, con le udienze che si dovrebbero tenere solo in casi gravi
ed urgenti, ha deciso il caso di questa persona. In 48 ore viene emanata la
sentenza che “accoglie l'istanza e
per l'effetto sospende l'atto di diffida e la messa in quarantena”.
Si riporta qui appresso la motivazione del provvedimento: “riscontrata allo stato degli atti la verosimiglianza di quanto dedotto in
esito alla essenzialità del percorso seguito dalla propria abitazione per
l'approvvigionamento presso il punto di distribuzione automatico di tabacchi”. Il giudice Capano continua “ritenuto
che l'estrema gravità e urgenza vada apprezzata anche nella adeguata
considerazione del fine giustificante e misure. Certo, il ricorso viene accolto
con esclusivo riferimento all'atto di diffida e messa in quarantena in
relazione ai detti impegni professionali, nei limiti di quanto ad essi necessariamente
connesso e nel rispetto di tutte le altre misure, condizioni e precauzioni note
al ricorrente”.
Ora, al di la della
correttezza o meno del provvedimento del Tar Partenopeo in termini di tutela
della collettività, il pericolo segnalato in queste poche righe,
dell’approssimarsi di numerosi ricorsi davanti all’Autorità Giudiziaria
Amministrativa, si appalesa più che concreto.
Lascio a voi ogni
deduzione e taglio il parere che aveva espresso lo scrivente questo articolo,
ma sollevo solo un quesito? Non è a parer vostro troppo pesante nella sua
natura ,una denuncia penale nel caso di violazione del d.p.c.m DEL Governo?
E’ giusto che un
cittadino che deve andare a lavorare o a fare la spesa o a trovare i propri
figli e genitori ,li possa andare a trovare ma non possa pranzare con loro?
A mio modesto parere
la natura di questi provvedimenti non mi sembra perfettamente
in linea con la
Costituzione e sappiate che ove riceviate provvedimenti e denunce a seguito del
d.p.c.m. emesso dal governo che riteniate ingiuste, potete ricorrere al T.a.R.
della vostra regione.
Il consulente fiscale
online
Fonte:Fisco e Tasse
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